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La Scuola come una montagna

Pubblicato il 08/09/2015

La metafora dell’ascesa alla montagna sacra è stata più volte usata da maestri, terapeuti, padri più o meno spirituali.
Buoni ultimi, dunque, ne proponiamo anche noi una versione riveduta e corretta, che ci sembra adatta a far comprendere il senso del percorso triennale in cui è strutturata la scuola di counseling. Il viaggio, infatti, inizia ai piedi di una montagna.
Possiamo immaginarla alta circa 3500 metri, con una vetta rocciosa che attira lo sguardo e muove il desiderio di essere proprio lì, a godersi il panorama (verso il basso) e l’azzurro del cielo (verso l’alto).
Dovunque siamo, infatti, ci sono sempre un basso ed un alto verso cui guardare, tendere, andare! La salita inizia entrando in un sentiero che si inerpica nel fitto del bosco.
Come tutti i “montanari” sanno, fino a circa 1800 metri di quota la montagna lascia che gli alberi crescano sui suoi fianchi e che il bosco sia la sua “natura” prevalente. Ora siamo nel bosco, nella sua frescura, ma anche nella sua ombra scura; il sentiero, ora visibile ora meno, è difficile da seguire e, a volte, la paura di perdersi è forte.
E’ il territorio della comprensione. Occorre comprendere che stiamo salendo lungo la montagna e ce ne accorgiamo dalla fatica che sentiamo.
Non è possibile orientarsi, non vediamo punti di riferimento lontani e l’unica possibilità per procedere è di guardare al sentiero, ai suoi piccoli segni non sempre facili da riconoscere; comprendiamo anche che per seguirlo è a volte necessario fermarsi a riposare o magari scendere un po’, per poi risalire, anche se costa fatica. Impariamo a riconoscere la direzione, ma non sappiamo bene se e quando arriveremo alla vetta… Comprendiamo, infine, quanto è utile avere un amico che conosce già il sentiero!
Avvicinandoci al limitare del bosco, la luce si fa più intensa.
Ora la direzione è più chiara e il desiderio e la curiosità di vedere cosa ci aspetta al di là dell’ombra è molto forte…acceleriamo!
Usciti dal bosco e continuando a seguire il sentiero, ora più visibile, ci ritroviamo tra i prati.
C’è luce, vediamo la grandezza della montagna, soprattutto ne intravvediamo la vetta, molto più in alto. Ora possiamo misurare le nostre forze, rispetto al cammino da fare, ma proprio questo ci da il senso della nostra piccolezza, forse della stanchezza, ma anche della determinazione e del reale desiderio di arrivare in cima.
E’ il territorio dell’accettazione. Non esistono scorciatoie. Il sentiero, segnato dal passaggio di tanti prima di noi, percorre il fianco della montagna, salendo per vie che sembrano a volte più lunghe del necessario.
Ma occorre, anzi, è meglio accettare che sia così. Sulla montagna, infatti, conta più l’esperienza dei muli e delle pecore che sanno scegliere da soli la “minima pendenza” e che sfiorando crepacci e precipizi o, aggirando piccole cime che danno l’illusione della vetta, sanno salire verso i pascoli più verdi e verso i rifugi più nascosti.
Forse non c’è più tanto bisogno di chi ci guidi sul sentiero e se ogni tanto qualcuno prende sentieri diversi non ci spaventiamo: la strada è segnata. Salendo realizziamo di poter accettare anche di essere gli ultimi, semplicemente perché, in realtà, siamo insieme.
Ma anche i prati finiscono e arrivati intorno ai 3000 metri, intravvediamo le rocce.
Ai piedi delle prime balze possiamo alzare lo sguardo; la vetta sembra a portata di mano e di piede, in fondo mancano solo 500 metri di ascesa.
Ma solo ora ci accorgiamo che occorrerà coraggio ed esperienza.
Ci sono passaggi difficili da affrontare, ferrate da percorrere in sicurezza, arrampicate di costoni rocciosi che comporteranno inevitabilmente dei rischi.
Per questo motivo, ai piedi della roccia ci fermiamo, aspettiamo gli altri e insieme concordiamo il percorso. Sulla roccia non c’è alcun sentiero, occorre costruire la propria via.
E’ il territorio della liberazione. Che non significa essere liberi, ma responsabili del proprio percorso. Potremo procedere in cordata (sembra il contrario della libertà!) e così riunire forze ed esperienze diverse, ma proprio questa condizione ci rende responsabili per noi stessi e per gli altri. Potremo anche scoprire di avere ben altre risorse che non la sola forza fisica espressa dalle nostre gambe e dai nostri piedi; anche le mani e le braccia sapranno farsi strada scoprendo minimi appigli, issando il corpo là dove le sole gambe non potrebbero mai arrivare. Gli altri sono con noi e per noi; noi siamo con gli altri e per gli altri.
Attraverso questa via sapremo arrivare in vetta, a 3500 metri. E in vetta potremo fermarci, almeno un po’, guardando verso il basso, verso il percorso già fatto (lo sviluppo della nostra personalità), ma anche verso un panorama più vasto che non conoscevamo pur facendone parte e pur provenendo da lì (le profondità del nostro inconscio). Poi potremo guardare verso l’alto, verso il cielo, scoprendo finalmente perché quella vetta ci attirava così tanto (le nostre istanze spirituali e transpersonali).
Infine, come spesso accade, il nostro sguardo si sposterà verso ciò che lungo il percorso non vedevamo: una cima più alta.
E di nuovo ci metteremo in cammino!
Forse un po’ immodestamente pensiamo che il percorso triennale della scuola di counseling possa essere l’occasione per imparare come salire sulla vetta.
Non sarà la prima, di certo non sarà l’ultima!
(Mario Franchi)

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